La scoperta della realtà nella pittura di Giotto

OBIETTIVI

La presente attività è rivolta a studenti del quarto anno (primo post-qualifica) del corso professionale “Tecnico dei servizi turistici”; con opportune modifiche può essere utilizzata in altri indirizzi.

CONOSCENZA

  1. conoscere la personalità artistica di Giotto
  2. conoscere i più importanti significati del ciclo di affreschi della Cappella degli Scrovegni, con particolare riguardo al Compianto sul Cristo morto
  3. conoscere gli elementi essenziali della tecnica dell’affresco

CAPACITÀ

  1. comprendere, sia pure nelle linee essenziali, il rapporto tra la cultura del Trecento e il nuovo linguaggio figurativo di Giotto

COMPETENZA

  1. È in grado di analizzare autonomamente gli aspetti rivoluzionari della pittura di Giotto in rapporto al contesto storico-culturale
  2. È in grado di illustrare ad un gruppo turistico le più significative caratteristiche del ciclo pittorico preso in esame

COLLEGAMENTI INTERDISCIPLINARI

  1. Storia
  2. Italiano
  3. Laboratorio d’informatica

PREREQUISITI

  1. prima conoscenza degli elementi fondamentali del linguaggio pittorico
  2. conoscenza dei tratti salienti caratterizzanti l’arte bizantina e medioevale
  3. conoscenza sommaria della cultura e dei principali fenomeni storici dell’Italia dell’inizio del Trecento
  4. capacità di utilizzare un PC, il collegamento ad Internet, un word processor ed un programma di decompressione dati
  5. acquisito parzialmente precedentemente (già verificato);
  6. acquisito nella prima parte dell’anno (già verificato) e richiamato nella lezione espositiva mediante un breve confronto di opere;
  7. acquisito (nello stesso anno, come previsto dalle indicazioni programmatiche ministeriali) con il docente di Italiano e Storia e verificato dallo stesso;
  8. acquisito nei primi due anni del corso di qualifica nell’ambito della T.I.C. (Tecnologia dell’Informazione e della Comunicazione) e verificato in altre occasioni.

STRUMENTI

  1. Libro di testo
  2. Personal computer con collegamento ad Internet
  3. Episcopio
  4. Guida d’Italia-Veneto,T.C.I.

METODO

  1. Studio individuale
  2. Laboratorio d’informatica
  3. Lezione frontale
  4. Viaggio d’istruzione a Padova (con esercitazione)

TEMPI

  • 1 ORA: laboratorio d’informatica
  • 1 ORA: lezione in codocenza
  • 2 ORE: lezione frontale
  • 1 GIORNO: visita d’istruzione a Padova

ATTIVITÀ DIDATTICA

STUDIO INDIVIDUALE

Prima delle lezioni:
gli studenti studieranno autonomamente sul manuale cenni sulla vita e sulle opere di Giotto.

Successivamente alle lezioni:
ogni studente analizzerà, con l’ausilio della Guida d’Italia e di altri testi, un riquadro del ciclo pittorico, preparandosi ad illustrarlo ad un immaginario gruppo di turisti.

LABORATORIO DI INFORMATICA

Gli studenti, divisi in quattro gruppi in base alle tecniche del cooperative learning, si collegheranno ad Internet al sito “www.liberliber.it” e preleveranno dalla biblioteca virtuale del “Progetto Manuzio” i seguenti testi elettronici (uno per gruppo):

  1. “Vite” di Vasari (vi è presente una citazione da Purg. XI)
  2. “Decameron” di Boccaccio
  3. “Trecentonovelle” di Sacchetti
  4. Cronica” di G. Villani

Successivamente gli studenti decomprimeranno i file in formato zip e, utilizzando il comando trova/find di un word processor, selezioneranno le parti dei testi nelle quali si fa riferimento a Giotto e le stamperanno (vedi appendice).

LEZIONE IN CODOCENZA CON L’INSEGNANTE DI LETTERE

Il docente di lettere fornirà gli elementi essenziali per inquadrare cronologicamente gli autori; attraverso la lettura guidata dei testi, si farà insieme emergere che:

“Gli scrittori del Trecento, cominciando proprio da Dante, sentono l’enorme importanza di Giotto: non è più il sapiente artigiano che opera nel filo di una tradizione al servizio dei supremi poteri religiosi e politici, ma il personaggio storico che muta la concezione, i modi, la finalità dell’arte esercitando una profonda influenza sulla cultura del tempo. Non si loda solo la sua perizia nell’arte, ma il suo ingegno inventivo, la sua interpretazione della natura, della storia, della vita. Dante stesso, così fiero della propria dignità di letterato, riconosce in Giotto un eguale, la cui posizione, rispetto ai maestri che l’hanno preceduto, è simile alla propria rispetto ai poeti del dolce stil novo. […] Boccaccio, Sacchetti, Villani insistono, più o meno, sullo stesso motivo: Giotto ha fatto rinascere la pittura morta da secoli, dandole naturalezza e gentilezza. Il periodo in cui l’arte fu come morta è quello in cui era dominata dall’influenza bizantina; liberandola, Giotto la ricollega alla fonte classica, a un’arte i cui contenuti essenziali erano la natura e la storia.”

(Argan)

LEZIONE FRONTALE

  • Presentazione degli obiettivi.
  • Proiezione con l’episcopio di opere pittoriche precedenti e di affreschi di Giotto, invitando gli studenti a cogliere le più evidenti differenze formali. Un classico confronto è rappresentato dal Crocifisso aretino di Cimabue e da quello di Giotto conservato a S. Maria Novella: il Cristo di Cimabue è ancora una “schematizzazione” di un corpo, quello di Giotto è un morto vero, molto più realistico; la ferita al costato è una vera ferita che getta uno schizzo di sangue etc.
  • Proiezione del Compianto sul Cristo morto (vedi illustrazione in basso).
  • Analisi guidata con problem solving di alcuni possibili livelli di lettura dell’opera.

1) LIVELLO ICONOGRAFICO

Le pareti della Cappella degli Scrovegni sono affrescate su tre livelli, con le storie di Cristo (fonte: Vangeli), precedute da quelle della Madonna e di Gioacchino (fonte: protovangelo apocrifo di Giacomo) È opportuno spiegare che Gioacchino era il padre di Maria, cacciato dal tempio di Gerusalemme perché il suo matrimonio con Anna era rimasto infecondo, nonché il concetto di “vangeli apocrifi”, spesso utilizzati come fonti nei cicli pittorici.

“Il ciclo comincia con la Cacciata di Gioacchino dal tempio, un episodio biblico collegato con la nascita della Vergine; seguita con le Storie della Madonna e di Cristo; termina con la Pentecoste, cioè con la solennità ebraico-cristiana che allude alla diffusione della dottrina attraverso la Chiesa. La continuità ideologica di antico e nuovo Testamento è espressa nella storia vissuta del rapporto affettivo ed umano tra la Madonna e Cristo. È anche, per Giotto, il punto culminante e cruciale della storia dell’umanità, a cui la presenza reale del Cristo pone con estrema chiarezza l’alternativa morale del bene e del male. Sotto le storie, infatti, corre un alto fregio monocromo con figure allegoriche delle Virtù e dei Vizi corrispondenti. Su tutto domina, nella controfacciata, il Giudizio finale.”

(Argan)

L’episodio del Compianto, narrato dai vangeli, descrive il momento in cui il corpo di Cristo, dopo essere stato deposto dalla croce, viene cosparso di unguenti profumati e coperto da un lenzuolo bianco prima di essere collocato nel sepolcro. Sono presenti: la Madonna (sorregge la testa di Gesù), S.Giovanni (con le braccia allargate in segno di disperazione), Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea (entrambi in piedi, sulla destra), Maria Maddalena, secondo tradizione vestita di rosso e con i capelli biondi.

2) LIVELLO VISIVO-STRUTTURALE

“La cappella è un vano rettangolare, coperto a botte; le pareti sono nude, prive di membrature architettoniche. La definizione dello spazio è dunque interamente affidata alla pittura. (…) Indubbiamente Giotto ha cercato una armonia coloristica d’insieme: indipendentemente dalle singole storie, v’è una immagine spaziale unitaria determinata dal ricorrere della nota dominante dell’azzurro nei fondi e, incontrastata, nella volta: sull’azzurro, come una variazione melodica su una tonalità di fondo, si modulano le gamme chiare, luminose degli altri colori.”

(Argan)

Compianto sul Cristo morto
Compianto sul Cristo morto

Nella scena la sfera celeste, popolata da angeli, è nettamente separata da quella umana che occupa la parte inferiore della pittura. Asse portante di tutta la composizione è il corpo steso di Cristo morto, intorno al quale si dispongono tutti gli altri personaggi. Le figure in secondo piano si allineano alla stessa altezza, in modo da assecondare l’andamento orizzontale della scena determinato dalla posizione del corpo di Cristo. Lo spazio nel quale si muovono i protagonisti è delimitato da una roccia che taglia diagonalmente lo sfondo. La profondità è ottenuta sistemando i corpi su piani paralleli disposti uno dietro l’altro; a questo proposito assumono particolare importanza le due figure ammantate sedute di spalle in primo piano, che accentuano l’effetto illusionistico di realtà spaziale.

3) LIVELLO TECNICO-STRUTTURALE

La tecnica utilizata è l’affresco.

Sul muro viene applicato l’intonaco, composto di due strati, il primo, chiamato arriccio, funge da “base”, il secondo è quello che deve mantenersi più fresco, più umido, durante l’esecuzione del dipinto; per permettere che l’intonaco si mantenga uniformemente umido mentre viene dipinto, è necessario che la sua superficie sia proporzionata ai tempi di esecuzione (generalmente un giorno): il secondo strato di intonaco viene quindi applicato solo in porzioni di muro, dette appunto giornate. In genere sull’arriccio il pittore traccia con una terra rossiccia un disegno sommario sul quale orientarsi nell’esecuzione: la sinopia.

Eventuali approfondimenti: tecnica dei cartoni a ricalco.

4) LIVELLO EXTRATESTUALE

Il committente: Enrico degli Scrovegni era uno degli uomini più ricchi di Padova; il padre era stato condannato per usura; un antico cronista padovano afferma che la cappella venne eretta da Enrico per espiazione dei peccati del padre.

5) LIVELLO ICONOLOGICO

La scena del Compianto si svolge sullo sfondo di un paesaggio desolato nel quale è presente un albero spoglio, a rappresentare il dolore della natura di fronte all’evento della morte di Cristo.

VISITA DI ISTRUZIONE

Ogni studente illustrerà ad un immaginario gruppo di turisti un riquadro del ciclo pittorico.

APPENDICE

SCELTA DI TESTI PRELEVATI DALLA BIBLIOTECA DEL “PROGETTO MANUZIO”

VASARI, LE VITE

GIOVANNI CIMABUE (passi)

Visse Cimabue anni sessanta, e lasciò molti discepoli di quell’arte, e fra gli altri Giotto di perfettissimo ingegno. Morí nel MCCC, et in Santa Maria del Fiore di Fiorenza gli fu dato sepoltura, et uno de’ Nini gli fece questo epitaffio:

CREDIDIT VT CIMABOS PICTVRAE CASTRA TENERE

SIC TENVIT VIVENS NVNC TENET ASTRA POLI.

Or, s’alla gloria di Cimabue non avesse contrastato la grandezza di Giotto suo discepolo, sarebbe la fama sua stata maggiore, come ne fa fede Dante Aligheri nella Comedia sua alludendo nello XI canto del Purgatorio a la stessa inscrizzione della sepultura, e dicendo:

Credette Cimabue nella pittura

Tener lo campo, et ora ha Giotto il grido,

Sí che la fama di colui oscura.

Cimabue dunche fra tante tenebre fu prima luce della pittura, e non solo nel lineamento delle figure, ma nel colorito di quelle ancora, mostrando per la novità di tale esercizio sé chiaro e celebratissimo. Costui destò l’animo a i compatrioti suoi di seguirlo in sí difficile e bella scienza, di che lode infinita merita egli per la impossibilità e per la grossezza del secolo in che nacque, e molto piú che s’egli ritrovata l’avesse. E ciò fu cagione che Giotto, suo creato, mosso dalla ambizione della fama et aiutato dal cielo e dalla natura, andò tanto alto col pensiero, ch’aperse la porta della verità a coloro che hanno ridotto tal mestiero a lo stupore et a la maraviglia che veggiamo nel secol nostro. | Il qual, avezzo ogni dí a vedere le maraviglie et i miracoli e le impossibilità degli artefici in questa arte, è condotto oggimai a tale che, di cosa fatta da gli uomini, benché piú divina che umana sia, punto non istupisce, e buon per coloro che lodevolmente s’affaticano se, in cambio d’esser lodati et ammirati, non ne riportassero biasimo, et il piú delle volte vergogna.

ANDREA TAFFI (passi)

Pittor Fiorentino

Ma poi che l’opere di Giotto furono poste in paragone di quelle d’Andrea e di Cimabue, conobbero i popoli la perfezzione dell’arte, vedendo la differenza ch’era da la maniera prima di Cimabue a quella di Giotto nelle figure loro, e da gli imitatori dell’uno e dell’altro egregiamente fatte; laonde, seguendo gli altri di mano in mano l’orme de’ lor maestri, alla bontà dove oggi siamo pervenuti sono, e da tanta bassezza al colmo delle meraviglie, ch’oggi veggiamo, la pittura hanno inalzata. Infelici secoli possono chiamarsi quegli che privi sono stati di cosí bella virtú, la quale ha forza, quando è da dotta mano, o in muro o in tavola, in superficie di disegno, o con colore lavorata, tenere gli animi fermi et attenti a risguardare il magisterio delle opere umane, rappresentando la idea e la imaginazione di quel|le parti che sono celesti, alte e divine, dove per pruova si mostra l’altezza dello ingegno e le invenzioni dello intelletto; l’operazioni de i quali altamente riducono gli egregi spiriti et i valoros’ingegni a la notizia delle cose della natura, et esprimendole nelle pitture fanno fede delle grandezze del cielo ne gli ornamenti del mondo.

VITA DI GIOTTO (integrale)

Pittor Fiorentino

Quello obligo istesso che hanno gli artefici pittori alla natura, la quale continuamente per essempio serve a quegli che, cavando il buono da le parti di lei piú mirabili e belle, di contrafarla sempre s’ingegnano, il medesimo si deve avere a Giotto. Perché, essendo stati sotterrati tanti anni dalle ruine delle guerre i modi delle buone pitture et i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, con celeste dono, quella ch’era per mala via, resuscitò, e redusse ad una forma da chiamar buona. E miracolo fu certamente grandissimo che quella età e grossa et inetta avesse forza d’operare in Giotto sí dottamente, che ‘l disegno, del quale poca o nessuna cognizione avevano gli uomini di que’ tempi, mediante sí buono artefice, ritornasse del tutto in vita. E nientedimeno i principii di sí grande uomo furono nel contado di Fiorenza, vicino alla città XIIII miglia. Era l’anno MCCLXXVI nella villa di Vespignano uno lavoratore di terre, il cui nome fu Bondone, il quale era tanto di buona fama nella vita e sí valente nell’arte della agricoltura, che nessuno che intorno a quelle ville abitasse era stimato piú di lui. Costui, nello aconciare tutte le cose, era talmente ingegnoso e d’assai, che dove i ferri del suo mestiero adoperava, piú tosto che rusticalmente adoperati e’ paressino, ma da una mano che gentil fussi d’un valente orefice o intagliatore, mostravano essere esercitati. A costui fece la natura dono d’un figliuolo, il | quale egli per suo nome alle fonti fece nominare Giotto. Questo fanciullo, crescendo d’anni, con bonissimi costumi e documenti mostrava in tutti gli atti, ancora fanciulleschi, una certa vivacità e prontezza d’ingegno straordinario ad una età puerile. E non solo per questo invaghiva Bondone, ma i parenti e tutti coloro che nella villa e fuori lo conoscevano. Per il che, sendo cresciuto Giotto in età di X anni, gli aveva Bondone dato in guardia alcune pecore del podere, le quali egli ogni giorno quando in un luogo e quando in un altro l’andava pasturando, e venutagli inclinazione da la natura dell’arte del disegno, spesso per le lastre, et in terra per la rena, disegnava del continuo per suo diletto alcuna cosa di naturale, o vero che gli venissi in fantasia. E cosí avenne che un giorno Cimabue, pittore celebratissimo, transferendosi per alcune sue occorrenze da Fiorenza, dove egli era in gran pregio, trovò nella villa di Vespignano Giotto, il quale, in mentre che le sue pecore pascevano, aveva tolto una lastra piana e pulita e, con un sasso un poco apuntato, ritraeva una pecora di naturale, senza esserli insegnato modo nessuno altro che dallo estinto della natura. Per il che fermatosi Cimabue, e grandissimamente maravigliatosi, lo domandò se volesse star seco. Rispose il fanciullo che, se il padre suo ne fosse contento, ch’egli contentissimo ne sarebbe. Laonde domandatolo a Bondone con grandissima instanzia, egli di singular grazia glielo concesse. Et insieme a Fiorenza inviatisi, non solo in poco tempo pareggiò il fanciullo la maniera di Cimabue, ma ancora divenne tanto imitatore della natura, che ne’ tempi suoi sbandí affatto quella greca goffa maniera, e risuscitò la moderna e buona arte della pittura, et introdusse il ritrar di naturale le persone vive, che molte centinaia d’anni non s’era | usato. Onde, ancor oggi dí, si vede ritratto, nella cappella del Palagio del Podestà di Fiorenza, l’effigie di Dante Alighieri, coetaneo et amico di Giotto, et amato da lui per le rare doti che la natura aveva nella bontà del gran pittore impresse; come tratta Messer Giovanni Boccaccio in sua lode, nel prologo della novella di Messere Forese da Rabatta e di Giotto.

Furono le sue prime pitture nella Badia di Fiorenza, la cappella dello altar maggiore, nella quale fece molte cose tenute belle; ma particularmente in una storia della Nostra Donna, quando ella è annunziata da l’Angelo, nella quale contrafece lo spavento e la paura, che nel salutarla Gabriello la fé mettere con grandissimo timore quasi in fuga. Et in Santa Croce quattro cappelle, tre poste fra la sagrestia e la cappella grande: nella prima, e dove si suonono oggi le campane, vi è fatto di sua mano la vita di San Francesco, e l’altre due, una è della famiglia de’ Peruzzi e l’altra de’ Giugni, et un’altra dall’altra parte di essa cappella grande. Nella cappella ancora de’ Baroncelli è una tavola a tempera, con diligenza da lui finita, dentrovi l’Incoronazione di Nostra Donna con grandissimo numero di figure picciole et un coro d’angeli e di santi, fatta con diligenzia grandissima, et in lettere d’oro scrittovi il nome suo. Onde gli artefici, che consideraranno in che tempo questo maraviglioso pittore, senza alcun lume della maniera, diede principio al buon modo di disegnare e del colorire, saranno sforzati averlo in perpetua venerazione. Sono ancora in detta chiesa altre tavole, et in fresco molte altre figure, come sopra il sepolcro di marmo di Carlo Ma<r>supini aretino, un Crocifisso con la Nostra Donna e San Giovanni e la Magdalena a’ piè della Croce. E da l’altra banda della chiesa, sopra la sepoltura di Lionardo Aretino, una Nunziata verso l’altare maggiore, | la quale è stata ricolorita da altri pittori moderni, come nel refettorio uno albero di croce e storie di San Lodovico et un Cenacolo; e nella sagrestia, ne gli armarii, storie di Cristo e di San Francesco. Nel Carmino, alla cappella di San Giovanni Batista, lavorate in fresco tutte le storie della vita sua, e nella Parte Guelfa di Fiorenza una storia della fede cristiana in fresco, dipinta perfettissimamente. Fu condotto ad Ascesi a finir l’opera cominciata da Cimabue, dove passando da Arezzo lavorò nella pieve la cappella di San Francesco sopra il battesimo, et in una colonna tonda, vicino a un capitello corinzio antico bellissimo, dipinse un San Francesco e San Domenico. Al duomo fuor d’Arezzo una cappelluccia, dentrovi la Lapidazione di Santo Stefano con bel componimento di figure. Finite queste opere si condusse ad Ascesi, a l’opra cominciata da Cimabue, dove acquistò grandissima fama, per la bontà delle figure che in quella opera fece, nelle quali si vede ordine, proporzione, vivezza e facilità donatagli dalla natura e dallo studio accresciuta, percioché era Giotto studiosissimo e di continuo lavorava. Et allora dipinse nella chiesa di Santa Maria de gli Agnoli e, nella chiesa d’Ascesi de’ frati minori, tutta la chiesa dalla banda di sotto. Sentí tanta fama e grido di questo mirabile artefice Papa Benedetto XII da Tolosa che, volendo fare in San Pietro di Roma molte pitture per ornamento di quella chiesa, mandò in Toscana un suo cortigiano, che vedesse che uomo era questo Giotto e l’opere sue, e non solamente di lui, ma ancora degli altri maestri che fussino tenuti eccellenti nella pittura e nel musaico. Costui, avendo parlato a molti maestri in Siena, et avuti disegni da loro, capitò in Fiorenza per vedere l’opere di Giotto e pigliar pratica seco; e cosí una mattina, arrivato in bot|tega di Giotto che lavorava, gli espose la mente del papa et in che modo e’ si voleva valere dell’opera sua. Et in ultimo lo richiese che voleva un poco di disegno per mandarlo a Sua Santità. Giotto, che cortesissimo era, squadrato il cortigiano prese un foglio di carta et in quello, con un pennello che egli aveva in mano tinto di rosso, fermato il braccio al fianco per farne compasso e girato la mano, fece un tondo sí pari di sesto e di proffilo, che fu a vederlo una maraviglia grandissima. E poi, ghignando, volto al cortigiano gli disse: “Eccovi il disegno”. Tennesi beffato il mandato del papa, dicendo: “Ho io <a> avere altro disegno che questo?” Rispose Giotto: “Assai e pur troppo è quel che io ho fatto: mandatelo a Roma insieme con gli altri e vedrete se sarà conosciuto”. Partissi il cortigiano da Giotto, e quanto e’ pigliasse mal volentieri questo assunto, dubitando non essere uccellato a Roma, ne fece segno co ‘l non esser satisfatto nel suo partire; pure, uscito di bottega e mandato al papa tutti e’ disegni, scrivendo in ciascuno il nome e di chi mano egli erano, tanto fece nel tondo disegnato da Giotto e nella maniera che egli l’aveva girato, senza muovere il braccio e senza seste, fu conosciuto dal papa e da molti cortigiani intendenti quanto egli avanzasse di eccellenzia tutti gli altri artefici de’ suoi tempi. E perciò, divulgata<s>i questa cosa, ne nacque quel proverbio familiare e molto ancora ne’ nostri tempi usato: “Tu sei piú tondo che l’O di Giotto”. Il quale proverbio non solo per il caso donde nacque si può dir bello, ma molto piú per il suo significato, che consiste nella ambiguità del tondo, che oltra a la figura circulare perfetta significa ancora tardità e grossezza d’ingegno. Fecelo dunque il predetto papa venire a Roma, onorandolo grandemente e con premi riconoscendolo, dove fece la Tribuna | di San Pietro et uno angelo di sette braccia, dipinto sopra l’organo, e molte altre pitture, parte ristaurate da altri a’ nostri dí, e parte nel rifondare le mura nuove, disfatte, e traportate da lo edificio del vecchio San Piero fin sotto l’organo; come una Nostra Donna che era in su<r> un muro, il quale, perché ella non andasse per terra, fu tagliato attorno et allacciato co’ travi e ferri, e murata di poi per la sua bellezza dalla pietà et amore che portava all’arte il gentilissimo Messer Niccolò Acciaiuoli, dottore fiorentino, con altre restaurazioni moderne di pittura e di stucchi per abellire questa opera di Giotto. Fu di sua mano la nave del musaico, fatta sopra le tre porte del portico, nel cortile di San Pietro, la quale fu sí maravigliosa, et in quel tempo di tal disegno, d’ordine e di perfezzione, che le lode universalmente datele da gli artefici e da altri intendenti ingegni meritamente se le convengono. Fu chiamato a Napoli dal Re Ruberto, il quale gli fece fare in Santa Chiara, chiesa reale edificata da lui, alcune cappelle, nelle quali molte storie del Vecchio e Nuovo Testamento si veggono. Dove ancora, in una cappella, sono molte storie dell’Apocalisse, ordinategli (per quanto si dice) da Dante, fuor uscito allora di Firenze e condotto in Napoli anch’egli per le parti. Nel Castello de l’Uovo fece ancora molte opere, e particularmente la cappella di detto Castello. E fu sí da quel re amato, che oltra la pittura pigliò grandissimo piacere del suo ragionamento, avendo egli alcuni motti et alcune risposte molto argute, come fu quando dicendogli un giorno il re che lo voleva fare il prim’uomo di Napoli, “E per ciò”, gli rispose Giotto, “son io alloggiato vicino a Porta Reale per esser il primo di Napoli”. Et un’altra volta, dicendogli il re: “Giotto, s’io fusse in te, ora che fa caldo, tralasserei un poco il dipignere”, rispose: “Et | io, se fussi in voi, farei il medesimo”. Fecegli dunque fare molte cose in una sala che il Re Alfonso Primo ruinò per fare il castello, e cosí nella Incoronata. Dicesi che gli fu fatto dal re dipignere per capriccio il suo reame, per che Giotto gli dipinse uno asino imbastato, che teneva a’ piedi un altro basto nuovo e, fiutandolo, faceva segno di desiderarlo; e su l’uno e l’altro basto era la corona reale e lo scettro della podestà. Domandato dunque Giotto da ‘l re, nel presentargli questa pittura, de ‘l significato di quella, rispose tali i sudditi suoi essere e tale il suo regno, nel quale ogni giorno nuovo signore desideravano. Ora, partitosi da Napoli, fu intertenuto in Roma dal Signor Malatesta da Rimini, che condottolo nella sua città moltissime cose nella chiesa di San Francesco gli fece dipignere; le quali da Sigismondo, figliuolo di Pandolfo, che rifece la chiesa tutta di nuovo, furono guaste e rovinate. Fece ancora nel chiostro di detto luogo, a l’incontro della facciata della chiesa, la istoria della Beata Michilina a fresco, che fu una delle piú belle et eccellenti cose che Giotto facesse, per le leggiadrissime considerazioni che ebbe questo rarissimo artefice nel dipignerla. Perché, oltra la bellezza de’ panni, e la grazia e la vivezza delle teste de gli uomini e delle donne, che sono vivissime e miracolose, egli è cosa singularissima una giovane che v’è, bellissima quanto piú esser si possa, la quale, per liberarsi da la calumnia dello adulterio, giura sopra di un libro, con gli occhi fissi negli occhi del proprio marito, che giurar la faceva per diffidanza d’un figliuol nero partorito da lei, il quale in nissun modo che suo fusse poteva credere. Costei (cosí come il marito mostra lo sdegno e la diffidenza nel viso) fa conoscere, con la pietà della fronte e de gli occhi, a coloro che intentissimamente la contemplano, la innocenzia | e la simplicità sua, et il torto che se le faceva in farla giurare, e nel publicarla a torto per meretrice. Medesimamente grandissimo affetto fu quel ch’espresse questo ingegnosissimo artefice in un infermo di certe piaghe; dove tutte le femmine che vi sono dattorno, offese dal puzzo, fanno certi torcimenti schifosi, i piú graziati del mondo. Et in un altro quadro vi si veggono scorti bellissimi fra una quantità di poveri attratti; et è maravigliosissimo l’atto che fa la sopradetta beata a certi usurai, che le sborsano i danari della vendita delle sue possessioni, per dargli a’ poveri, e le pare che i denari di costor putino; e vi è uno che, mentre quegli annovera, pare ch’accenni al notaio che scriva, e co ‘l tenere le mani sopra i denari, fa conoscere, con garbatissima considerazione, l’affezzione e l’avarizia sua. Mostrò Giotto in tre figure, che in aria sostengano l’abito di San Francesco, figurate per l’obedienza e la pazienzia e la povertà, molta bella maniera di panni, i quali con bello andare di pieghe, morbidamente colorite, fanno conoscere a coloro che le mirano, che egli era nato per dar luce all’arte della pittura. Ritrasse di naturale il signor Malatesta in una nave, che pare vivissimo; et alcuni marinai et altre genti che, di prontezza e di affetto nelle attitudini loro, fanno conoscere l’eccellenzia di Giotto, come si vede in una figura, che parlando con alcuni si mette una mano al viso, sputando in mare. E certamente, fra tutte le cose fatte da Giotto in pittura, questa si può dire essere una delle migliori, perché non vi è figura, in cosí gran numero di figure, che non abbia in sé grandissimo e bell’artificio, e non sia posta con capricciosa attitudine. E però non mancò il Signor Malatesta, vistosi nascere nella sua città una delle piú belle cose del mondo, premiarlo e magnificamente lodarlo. Finiti i lavori di quel si|gnore, pregato da un prior fiorentino, che allora nella chiesa di San Cataldo, in quella città, era da’ suoi superiori mandato, che egli volesse dipignerli, fuor della porta della chiesa, un San Tomaso d’Aquino che a’ suoi frati leggesse la lezzione, esso per l’amicizia che seco aveva non mancò di satisfarlo, faccendoli una pittura molto lodevole. E di quivi partito andò a Ravenna, et in San Giovanni Vangelista fece una cappella a fresco lodata molto. Tornossi poi con grandissimo onore e con grandissima facultà a Fiorenza, dove in San Marco fece un Crocifisso in sul legno grande lavorato a tempera, maggiore che ‘l naturale, in campo d’oro, il quale fu messo a mano destra in chiesa; et un simile ne fece in Santa Maria Novella, sul quale Puccio Capanna suo creato in compagnia di lui lavorò, et ancora oggidí è locato sopra la porta maggiore nell’intrata della chiesa. Dipinse in fresco nel medesimo luogo un San Lodovico, sopra al tramezzo della chiesa a man destra, sotto la sepoltura de’ Gaddi; e ne’ frati umiliati in Ogni Santi una cappella e quattro tavole. E fra l’altre una, dentrovi una Nostra Donna, con molti angeli attorno et il figliuolo in braccio; et un Crocifisso grande in legno, da ‘l quale Puccio Capanna, pigliando il disegno, molti per tutta Italia ne lavorò, avendo presa molto la pratica e la maniera di Giotto. Nel tramezzo della chiesa in detto luogo è appoggiata una tavolina a tempera, dipinta di mano di Giotto con infinita diligenza e con disegno e vivacità dentrovi la Morte di Nostra Donna, con gli Apostoli che fanno l’essequie, e Cristo che l’anima in braccio tiene; da gl’artefici pittori molto lodata, e particularmente da Michel Agnolo Buonaroti, attribuendole la proprietà della storia essere molto simile al vero. Oltra che le attitudini nelle figure con grandissima grazia dello arte|fice sono espresse. E veramente fu in que’ tempi un miracolo il vedere in Giotto tanta vaghezza nel dipignere e considerare ch’egli avesse appreso quest’arte senza maestro.

Avvenne che, per aver Giotto nel disegno fatto una bellissima pratica, li fu fatto fare molti disegni, e non solamente per pitture, ma per fare delle sculture ancora; come quando l’Arte de’ Mercatanti volse far gettar di bronzo le porte del Batisteo di San Giovanni, egli disegnò per Andrea Pisano tutte le storie di San Giovanni Batista, ch’è quella porta che volta oggi verso la Misericordia. Ma quanto e’ valesse nella architettura lo dimostrò nel modello del campanile di Santa Maria del Fiore, che essendo mancato di vita Arnolfo Todesco, capo di quella fabrica, e desiderando gli operai di quella chiesa, e la Signoria di quella città, che si facesse il campanile, Giotto ne fece fare co ‘l suo disegno un modello di quella maniera todesca che in quel tempo si usava, e per averlo egli ben considerato, inoltre disegnò tutte le storie che andavano per ornamento in quella opera. E cosí scompartí di colori bianchi, rossi e neri in sul modello, tutti que’ luoghi dove avevano andare le pietre et i fregi, con grandissima diligenzia, et ordinò che ‘l circuito da basso fussi in giro di larghezza de braccia 100, ciò è braccia 25 per ciascuna faccia e l’altezza braccia 144; nella quale opera fu messo mano l’anno MCCCXXXIIII e seguitata del continuo, ma non sí che Giotto la potessi veder finita, interponendosi la morte sua. Mentre che questa opera si andava fabricando, fece egli, nelle Monache di San Giorgio, una tavola, e nella Badia di Fiorenza, in uno arco sopra la porta di dentro alla chiesa, tre mezze figure, oggi dalla ignoranzia d’uno abbate fatte imbiancare per illuminare la chiesa. Nella sala grande del Podestà di Fiorenza, per mettere paura a i | popoli dipinse il commune ch’è rubato da molti; dove in forma di giudice con lo scettro in mano a sedere lo figura, e le bilance pari sopra la testa, per le giuste ragioni ministrate da esso, et aiutato da quattro figure, dalla Fortezza con l’animo, dalla Prudenzia con le leggi, dalla Giustizia con l’armi e dalla Temperanza con le parole; pittura bella et invenzione garbata, propria e verisimile. Partissi di Fiorenza per fare nel Santo di Padova alcune cappelle, dove molto dimorò, perché fece ancora nel luogo dell’arena una Gloria Mondana, la quale gli diede molto onore. Et a Milano trasferitosi quivi ancor lavorò, et a Fiorenza ritornatosi, alli VIII di gennaio nel MCCCXXXVI rese l’anima a Dio, onde da gli artefici pianto et a’ suoi cittadini assai doluto, non senza portarlo alla sepoltura con quelle esequie onorevoli che a una tanta virtú com’era quella di Giotto si convenissi, et a una patria come Fiorenza, degna d’uno ingegno mirabile come il suo. E cosí quel giorno non restò uomo, piccolo o grande, che non facesse segno con le lacrime o co ‘l dolersi della perdita di tanto uomo. Il quale, per le rare virtú che in lui risplenderono, meritò, ancora che e’ fosse nato di sangue vile, lode e fama certo chiarissima.

Il campanile di Santa Maria del Fiore fu seguitato e tirato avanti da Taddeo Gaddi suo discepolo, in su lo stesso modello di Giotto. Et è opinione di molti, e non isciocca, che egli desse opera alla scoltura ancora, attribuendogli ch’e’ facesse due storiette di marmo che sono in detto campanile, dove si figurano i modi et i principii dell’arti, ancora che altri dichino solamente il disegno di tali storie essere di sua mano. Restò in memoria della sua sepoltura in Santa Maria del Fiore, dalla banda sinistra entrando in chiesa, un mattone di marmo, dove è sepolto il corpo suo.

I discepoli suoi furono Taddeo sopradetto e Puccio Capanna, | che in Rimini nella chiesa di San Cataldo de’ frati predicatori, dipinse un voto d’una nave che par che affoghi nel mare, con gente che gettano le robe nel mare. Et evvi Puccio di naturale, fra un buon numero di marinari. Fu ancora suo discepolo Ottaviano da Faenza, che in San Giorgio di Ferrara, luogo de’ monaci di Monte Oliveto, dipinse molte cose; et in Faenza sua patria, dove egli visse e morí, dipinse nello arco sopra la porta di San Francesco una Nostra Donna con San Piero e San Paulo. E Guglielmo da Forlí, che fece molte opere, e particularmente la cappella di San Domenico nella sua città. Furono similmente creati di Giotto Simon Sanese, Stefano Fiorentino e Pietro Cavallini romano, et altri infiniti, i quali molto alla maniera et alla imitazione di lui s’accostarono. Restò nelle penne di chi scrisse a suo tempo, e poi, tanta maraviglia del nome suo, per esser stato primo a ritrovare il modo di dipignere, perduto inanzi lui molti anni, che dal Magnifico Lorenzo Vecchio de’ Medici, facendosi egli di questo maestro ogni giorno piú maraviglia, meritò d’avere in Santa Maria del Fiore la effigie sua scolpita di marmo; e dal divino uomo Messer Angelo Poliziano lo infrascritto epitaffio in sua lode, acciò che quegli che verranno eccellenti e rari in qual si voglia professione, debbino valorosamente esercitarsi per avere di sí fatte memorie, meritandole, in lode loro dopo la morte, come fe’ Giotto:

ILLE EGO SVM PER QVEM PICTVRA EXTINCTA REVIXIT

CVI QVAM RECTA MANVS TAM FVIT ET FACILIS

NATVRAE DEERAT NOSTRAE QVOD DEFVIT ARTI

PLVS LICVIT NVLLI PINGERE NEC MELIVS

MIRARIS TVRRIM EGREGIAM SACRO AERE SONANTEM?

HAEC QVOQVE DE MODVLO CREVIT AD ASTRA MEO

DENIQVE SVM IOTTVS. QVID OPVS FVIT ILLA REFERRE?

HOC NOMEN LONGI CARMINIS INSTAR ERIT.

GIOVANNI VILLANI, CRONICA

XII (passi)

Quando si cominciò a fondare il campanile di Santa Reparata e ‘l ponte a la Carraia.

Nel detto, anno a dì XVIII di luglio, si cominciò a fondare il campanile nuovo di Santa Reparata, di costa a la faccia della chiesa in su la piazza di Santo Giovanni. E a ciò fare e benedicere la prima pietra fue il vescovo di Firenze con tutto il chericato e co’ segnori priori e l’altre segnorie co·molto popolo a grande processione; e fecesi il fondamento infino all’acqua tutto sodo; e soprastante e proveditore della detta opera di Santa Liperata fue fatto per lo Comune maestro Giotto nostro cittadino, il più sovrano maestro stato in dipintura che·ssi trovasse al suo tempo, e quelli che più trasse ogni figura e atti al naturale.

BOCCACCIO, DECAMERONE

Giornata sesta – Novella quinta (passi)

Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l’uno la sparuta apparenza dell’altro motteggiando morde.

E l’altro, il cui nome fu Giotto, ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la Natura, madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de’cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto.

E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d’alcuni, che più a dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere allo ‘ntelletto de’savi dipignendo intendeano, era stata sepulta, meritamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote; e tanto più, quanto con maggiore umiltà, maestro degli altri in ciò vivendo, quella acquistò, sempre rifiutando d’esser chiamato maestro. Il quale titolo rifiutato da lui tanto più in lui risplendeva, quanto con maggior disidero da quegli che men sapevano di lui o dà suoi discepoli era cupidamente usurpato. Ma, quantunque la sua arte fosse grandissima, non era egli per ciò né di persona né d’aspetto in niuna cosa più bello che fosse messer Forese.

FRANCO SACCHETTI, TRECENTONOVELLE

NOVELLA LXIII (passi)

A Giotto gran dipintore è dato uno palvese a dipingere da un uomo di picciolo affare. Egli facendosene scherne, lo dipinge per forma che colui rimane confuso.

Ciascuno può aver già udito chi fu Giotto, e quanto fu gran dipintore sopra ogni altro.

NOVELLA LXXV (passi)

A Giotto dipintore, andando a sollazzo con certi, vien per caso che è fatto cadere da un porco; dice un bel motto; e domandato d’un’altra cosa, ne dice un altro.

Chi è uso a Firenze, sa che ogni prima domenica di mese si va a San Gallo; e uomini e donne in compagnia ne vanno là su a diletto, piú che a perdonanza. Mossesi Giotto una di queste domeniche con sua brigata per andare, ed essendo nella via del Cocomero alquanto ristato, dicendo una certa novella, passando certi porci di Sant’Antonio, e uno di quelli correndo furiosamente, diede tra le gambe a Giotto per sí fatta maniera che Giotto cadde in terra. Il quale aiutatosi da sé e da’ compagni, levatosi e scotendosi, né biastemò i porci, né disse verso loro alcuna parola; ma voltosi a’ compagni, mezzo sorridendo, disse:

– O non hanno e’ ragione? ché ho guadagnato a mie’ dí con le setole loro migliaia di lire, e mai non diedi loro una scodella di broda.

Gli compagni, udendo questo, cominciorono a ridere, dicendo:

– Che rileva a dire? Giotto è maestro d’ogni cosa; mai non dipignesti tanto bene alcuna storia quanto tu hai dipinto bene il caso di questi porci.

E andaronsene su a San Gallo; e poi tornando da San Marco, e da’ Servi, e guardando, com’è usanza, le dipinture, e veggendo una storia di nostra Donna e Josefo ivi da lato, disse uno di costoro a Giotto:

– Deh dimmi, Giotto, perché è dipinto Josef cosí sempre malinconoso?

E Giotto rispose:

– Non ha egli ragione, che vede pregna la moglie, e non sa di cui?

Tutti si volsono l’uno all’altro, affermando, non che Giotto fusse gran maestro di dipignere, ma essere ancora maestro delle sette arti liberali. E tornatisi a casa, narrorono poi a molti le due novelle di Giotto, le quali furono tenute parole proprio di filosofo dagli uomini che avevono intendimento. Grande avvedimento è quello di uno vertuoso uomo, come fu costui.

Molti vanno e guardano piú con la bocca aperta, che con gli occhi corporei, o mentali; e però qualunche vive non può errare d’usare con quelli che piú che lui sanno, però che sempre s’impara.